A) La guerra dei dieci
anni di Benito Mussolini, 1935-1945, e le sue profonde radici
Nelle sintesi storiografiche
e nei manuali scolastici si legge abitualmente che l'Italia monarchico-fascista
entrò in guerra il 10 giugno 1940, e nella prospettiva di
una guerra breve:
Mussolini non pensava di entrare
in guerra a fianco dell'alleata Germania. Non pensò a preparare
l'esercito. Credette ad una guerra breve e non alla vittoria tedesca,
bensì ad una pace di compromesso, qualsiasi, nella quale
avrebbe giocato il ruolo di Monaco (1).
Tuttavia, ad una più
ampia considerazione, il regime guidato da Benito Mussolini era
entrato in un tunnel di avventure militari, da cui non sarebbe più
uscito fino alla sconfitta finale dell'aprile 1945 ben prima di
allora, già nel 1935. Il 2 ottobre di quell'anno, infatti,
parlando dallo stesso balcone romano di Palazzo Venezia da cui quasi
cinque anni dopo avrebbe annunziato la decisione di "scendere
in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente",
il duce del fascismo dichiarò, con un chiaro riferimento
alla sconfitta di Adua subita nel 1896 dall'Italia liberale: "Con
l'Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!". Il
giorno successivo le Regie forze armate iniziano l'invasione del
territorio abissino muovendo dalla Somalia a sud-ovest e dall'Eritrea
a nord. La campagna sarebbe durata formalmente fino al 9 maggio
1936, giorno in cui viene proclamato ufficialmente l'impero, tramite
un decreto del Gran Consiglio del fascismo, ancorché, nella
realtà,
consistenti nuclei di ribelli
che non accettarono la dominazione italiana sopravvissero e passarono
ripetutamente all'attacco nei mesi e negli anni successivi, ad onta
delle misure repressive particolarmente feroci, come quelle scatenate
dopo l'attentato contro il vicerè Graziani gravemente ferito
ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937(2) .
Ancora nel 1938, infatti, sono
stanziati nell'Africa Orientale Italiana (AOI, territorio coloniale
nato dall'unione di Eritrea, Somalia ed Etiopia) circa 90.000 militari
italiani (a cui si devono aggiungere circa 200.000 indigeni arruolati
nei cosiddetti "ascari"); altri 60.000 sono piazzati,
in quegli stessi mesi, in Libia, la colonia acquisita nel 1911 sotto
il governo del liberale Giovanni Giolitti (3). Un po' più
del 10% dell'organico totale (circa 1.300.000) degli uomini alle
armi in tempo di pace, insomma (4).
Poche settimane dopo la conclusione delle operazioni regolari in
Africa, il 27 luglio 1936 il neoministro degli Affari Esteri di
Mussolini, Galeazzo Ciano, autorizza l'invio di una squadra di aerei
da bombardamento (5) alle unità militari spagnole insorte,
sotto la guida del generale Francisco Franco, contro il governo
della Repubblica spagnola, retto da una coalizione di Fronte Popolare.
E' solo l'inizio:
A conclusione dell'intervento
[in Spagna], Mussolini avrà inviato 213 aerei da bombardamento,
132 tra idrovolanti, aerei d'assalto e aerei da ricognizione e 414
caccia, 3.436 carri armati veloci e migliaia di proiettili ai nazionalisti.
Ma soprattutto ben 72.785 uomini, di cui 43.129 dell'esercito e
29.646 della milizia raccolti sotto l'autorità del CVT (Comando
Truppe Volontarie), senza contare i 5.699 piloti e avieri e sei
sottomarini (6).
Le unità italiane sarebbero
rimaste in Spagna, partecipando attivamente alla guerra civile,
fino alla definitiva vittoria franchista, nel marzo 1939 (il 28
cade Madrid, il 31 viene presa Alicante, ultima città rimasta
in mano repubblicana). Appena una settimana dopo, il 7 aprile, reparti
del Regio esercito sbarcano in quattro località lungo la
costa albanese (7). In quarantotto ore il piccolo Stato balcanico,
già dal 1927 una sorta di protettorato italiano dalla fragile
indipendenza, è occupato militarmente. Il 16 successivo Vittorio
Emanuele III di Savoia, già re d'Italia e dal 1936 proclamato
imperatore grazie alla conquista dell'Etiopia, diventa anche re
d'Albania. Ma che l'obiettivo reale fosse la costituzione sulla
sponda orientale del mare Adriatico di una "testa di ponte"
in grado di fungere da punto di partenza per successive avventure
imperiali miranti alla destabilizzazione tanto della Jugoslavia
quanto della Grecia è cosa che, come ha ricordato Teodoro
Sala (8), era ben chiara agli occhi degli stessi gerarchi del regime:
in un testo autobiografico Dino Grandi afferma infatti che : "Il
controllo dell'Albania [
] divenne un potenziale strumento
offensivo per colpire al cuore la stessa Jugoslavia, o meglio la
Serbia" (9).
Non per caso il 28 ottobre 1940, poco più di un anno dopo
la nascita del "Regno d'Italia e d'Albania", sarà
proprio dal piccolo paese balcanico che verrà avviata l'aggressione
alla Grecia, destinata nei mesi successivi a destabilizzare tutti
quanti i Balcani con l'intervento tedesco, ungherese e bulgaro a
supporto delle forze italiane, ed i conseguenti collasso della Jugoslavia
e occupazione dello Stato ellenico. Ma ormai l'Italia monarchico-fascista
è attore a pieno titolo della Seconda guerra mondiale, dopo
che, il 10 giugno 1940, ha abbandonato l'ambigua "non belligeranza"
dichiarata nel settembre 1939 per unirsi anche sui campi di battaglia
all'alleata Germania a cui è ormai legata da mille inestricabili
fili, di natura tanto ideologica quanto materiale.
Che ci fosse un Leitmotiv in grado di unire assieme i singoli
passi di questa escalation aggressiva è cosa evidente sol
che si ripercorrano, come ha fatto recentemente un giovane studioso
(10), le visioni mussoliniane in politica estera:
Secondo Mussolini, già
nel 1922, se si fosse governata bene la nazione "indirizzandola
verso i suoi destini gloriosi", "proiettando gli italiani
come una forza unica verso i compiti mondiali", facendo del
Mediterraneo un lago italiano si sarebbe inaugurato un periodo grandioso
della storia italiana (11). Dodici anni dopo, il 19 marzo 1934,
durante il discorso tenuto alla terza assemblea quinquennale del
regime, Mussolini precisò le direzioni dell'espansione: "Parliamo
tranquillamente di un piano che va sino al vicino millennio: il
duemila [
]. Gli obiettivi storici dell'Italia hanno due nomi:
Asia e Africa, Sud e Oriente [
] non si tratta di conquiste
territoriali ma di espansione territoriale (12). Successivamente
affermò che la rivoluzione avrebbe dovuto raggiungere il
suo culmine con la conquista e l'espansione: "la marcia all'oceano
Atlantico" attraverso l'Africa settentrionale francese e la
"marcia all'oceano Indiano", attraverso il Sudan, che
avrebbe "saldato" la Libia all'Etiopia. La conquista dello
spazio vitale sarebbe stata attuata in tre momenti: corto, medio,
e lungo termine.
Lungi dall'essere una convinzione
personale del dittatore, la spinta imperiale dell'Italia monarchico-fascista
veniva da lontano, nutrita da pulsioni che affondavano le loro radici
nella tarda età liberale e che avevano trovato abbondante
nutrimento nella mobilitazione di massa e nella conseguente, abbondante,
produzione di miti politici che avevano caratterizzato la partecipazione
del giovane Stato alla Grande guerra. Andando a ritroso nel tempo,
possiamo individuare una serie di antefatti che spiegano la carica
di violenza aggressiva, imbevuta - in particolare dalla metà
degli anni Trenta - di razzismo antinero ed antislavo, di cui le
Regie forze armate si sarebbero fatte portatrici (in particolare
nei Balcani ma non solo) nel periodo 1940-1943. Il primo episodio
da richiamare è la riconquista della Libia.
Alla fine della guerra mondiale
gli italiani controllavano in Libia le principali città della
costa [
]. Mentre in Pirenaica fra 1916 e 1917 si era già
giunti ad accordi con la Senussia, in Tripolitania la situazione
sembrava più sotto controllo e si stavano studiando dei piani
per una riconquista militare che avrebbe dovuto essere lanciata
nella primavera del 1919 [
Ma anche lì] vennero
intavolate trattative [
]. Il risultato degli incontri fu un
compromesso (13).
Di breve durata, tuttavia. Uno
degli ultimi gabinetti liberali prefascisti, il governo presieduto
da Ivanoe Bonomi, invia a Tripoli come governatore Giuseppe Volpi,
uomo nuovo con alle spalle l'esperienza di organizzatore del Comitato
di Mobilitazione Industriale nel periodo del conflitto mondiale
e fautore di una politica di riconquista, avviata dal suo subalterno
Rodolfo Graziani, allora giovane colonnello. Il 26 gennaio 1922,
dieci mesi prima della marcia su Roma e dell'assunzione della carica
di capo del governo da parte di Benito Mussolini, inizia l'offensiva
con la riconquista di Misurata. La lotta sarebbe proseguita per
anni, con fasi alterne, ancorché la sproporzione delle forze
sul terreno giocasse pesantemente a favore degli italiani, fino
al tragico epilogo del 1930-31, quando - allo scopo di stroncare
dalle radici la resistenza in Cirenaica - Graziani, con il pieno
appoggio del dittatore e dei suoi consiglieri, primo fra tutti l'ex
quadrumviro Emilio De Bono, organizza la deportazione in massa della
popolazione del Gebel (l'altopiano fertile che costituiva l'entroterra
cirenaico) verso la costa, nelle aree desertiche della Sirte.
Il risultato fu drammatico [
].
Sedentarizzate e confinate nei campi, le popolazioni seminomadi
persero la libertà, vennero stravolte nella loro economia
basata sugli spostamenti del bestiame, furono costrette a mutare
repentinamente stile di vita e cultura e, poiché le condizioni
nei campi erano durissime, molti persero la vita. E' difficile fare
calcoli: ma tra morti e scampati alla deportazione - con una fuga
in Egitto e ovunque fu loro possibile - la popolazione della Cirenaica
si ridusse di più di un quarto. Se poco meno di duecentomila
erano gli abitanti nel 1911, la metà dei quali venne sottoposta
alla deportazione nei campi, e circa ventimila furono gli esiliati
(di cui solo più di seimila rientrati), di circa quarantamila
si persero le tracce in pochi anni di vita nei campi. Fu un genocidio
(14).
Un secondo prodromo è
rappresentato dalla questione dei confini orientali. Un atteggiamento
aggressivo nei confronti dell'assetto politico strutturatosi sulla
sponda orientale dell'Adriatico (e, parallelamente, verso i popoli
in gran parte slavi che vi erano stanziati) è costitutivo
della proposta politica fascista e dei miti politici da essa utilizzati,
primo fra tutti quello della "vittoria mutilata", per
colpa sia degli infidi alleati francobritannici, sia della debolezza
del ceto politico liberale. Erede anche sotto questo aspetto delle
correnti più estreme della destra liberalconservatrice e
nazionalista, il fascismo unisce inestricabilmente velleità
di conquista territoriale e pulsioni francamente razziste:
nella stessa Trieste a partire
dall'estate del 1920 regnava quasi un clima da pogrom, rivolto contro
le organizzazioni di sinistra e la minoranza slava. Con l'attentato
incendiario alla casa slovena del popolo, il Narodni dom (15), i
fascisti di Francesco Giunta si distinsero come il gruppo più
radicale e più determinato fra i tanti gruppi nazionalistici
e paramilitari che operavano a Trieste dalla fine della guerra (16).
L'attacco al Narodni dom
è il primo assalto squadrista vero e proprio che si verifichi
in Italia, precedente alle azioni antioperaie ed antisocialiste
dei mesi che verranno, e non casualmente prende di mira una comunità
vista ad un tempo come estranea alla nazione e come politicamente
infida; nasce in questo modo lo stereotipo dello "slavocomunista",
destinato ad influenzare profondamente l'agire politico del regime
monarchico-fascista verso l'area balcanica (e non solo) ed a restare
in vita ben oltre il 1945, lasciando rilevanti tracce nella pubblicistica
di destra, fino ad oggi. Non casualmente, inoltre, saranno proprio
esponenti del fascismo giuliano a ricoprire ruoli determinanti nelle
istituzioni (dello Stato e del partito) deputate ad occuparsi della
penisola più orientale del mar Mediterraneo. In sintesi,
nella seconda metà degli
anni venti apparve sempre più chiaro che la meta cui Mussolini
voleva condurre l'Italia era il rovesciamento dell'equilibrio delle
potenze nel Mediterraneo [
]. Mussolini si convinse con sempre
maggior consapevolezza [
che] l'Italia doveva fare
da sé e farsi strada con la forza delle armi. L'incontro
con la Germania di Hitler non fu casuale, ma rappresentò
[
] la scelta dell'unico alleato disponibile a condividere
l'obiettivo italiano di dare il colpo di grazia all'ordinamento
dei vecchi trattati di pace (17).
B) Dalla violazione dei trattati
alla Weltanschauungs - und Vernichtungskrieg: la Germania di Adolf
Hitler 1936-1941
Il 7 marzo 1936 tre battaglioni
delle forze armate tedesche, che esattamente un anno prima avevano
mutato il proprio nome da Reichswehr in Wehrmacht, oltrepassano
la linea ad Ovest della quale - secondo le norme fissate nel trattato
di Versailles (1919) e ribadite in quello di Locarno (1925) - la
Germania era tenuta a non schierare proprie truppe (zona smilitarizzata),
e puntano su Aquisgrana, Treviri e Saarbrücken. Militarmente,
i reparti in marcia erano poca cosa, ma alle loro spalle, lungo
la riva destra del Reno, era ammassato il grosso delle truppe a
disposizione del Reich nazionalsocialista, pronte a far fronte ad
una possibile reazione armata francese. La guerra con Parigi era
perciò stata messa in conto dai circoli dirigenti di Berlino,
tanto dai politici quanto dai militari; mera leggenda, ancorché
assai diffusa, che si trattasse di un bluff e che ai comandanti
dei battaglioni incaricati di giungere al confine fosse stato ordinato
di ritirarsi subito qualora avessero incontrato truppe dell'esagono.
D'altro canto, la messa sotto controllo della fascia tra la riva
sinistra del Reno ed il confine era necessaria, per motivi sia geografici,
sia economici (industrie cruciali per la produzione di armamenti
avevano sede proprio lì) se la leadership nazionalsocialista
voleva dare corpo alla decisione di far ridiventare la Germania
una potenza militare capace di rovesciare con le armi lo status
quo (18).
Poco più di cinque anni dopo, il 22 giugno 1941, ben 153
divisioni della Wehrmacht, suddivise in tre gruppi d'armata (complessivamente
quasi tre milioni di uomini) attaccano l'Unione Sovietica. Non è
solo una guerra fra eserciti: sul fronte orientale si mescolano
inestricabilmente dettami ideologici (la"crociata contro il
bolscevismo"), istanze antisemitiche e razzistiche (la volontà
di fare "piazza pulita" dell'ebraismo europeo, in larga
parte concentrato nella parte centroorientale del continente, e
di ridurre gli slavi al rango di iloti), obiettivi politico-economici
(impadronendosi dei vasti spazi ucraini, bielorussi e della Russia
occidentale le élites al potere nel Terzo Reich puntavano
a risolvere una volta per tutte la strutturale carenza cerealicola
della Germania (19) ed a garantirsi il controllo di materie prime
cruciali come il petrolio del Caucaso). Ne scaturisce una guerra
di annientamento che non fa alcuna distinzione fra militari e civili
e che, anzi, vede agire unità specializzate nello sterminio
della popolazione operanti alle spalle del fronte, le Einsatzgruppen
(20). Si calcola che le quattro Einsatzgruppen (A, B, C, D)
che agiscono sul fronte orientale muovendosi nelle retrovie eliminino
complessivamente oltre un milione di esseri umani. Il loro organico
non supera in tutto le tremila persone.
Come l'Italia fascista, anche la Germania nazista si trova in uno
stato di mobilitazione bellica permanente dalla metà degli
anni Trenta; alla rimilitarizzazione della Renania segue infatti
l'intervento nella guerra civile spagnola; motivato da considerazioni
sia di carattere economico (la presenza nella penisola iberica di
materie prime basilari per la produzione bellica, primo fra tutti
il manganese), sia di natura commerciale (la vendita di armamenti
ai ribelli franchisti, in una fase in cui una delle principali fonti
di valuta pregiata per il Terzo Reich è per l'appunto l'esportazione
di armi), sia di tipo geostrategico (la presenza di un futuro regime
fascistizzante in grado di indebolire la Francia, che avrebbe finito
per trovarsi schiacciata tra le ganasce di una morsa), l'appoggio
nazionalsocialista a Franco ed ai suoi si esplica attraverso l'invio
di aerei e mezzi corazzati accompagnati da un numero relativamente
ridotto di uomini: è costituita la "Legione Condor",
formata da 6.500 uomini, rinnovati a rotazione affinché facciano
esperienza sui fronti di guerra. La legione è composta da
due gruppi di quattro squadriglie di caccia Messerschmitt 109; due
gruppi gruppi di due squadriglie di Heinkel 51; un gruppo di tre
squadriglie di Heinkel e Dornier 17 da ricognizione; quattro gruppi
di tre squadriglie di bombardieri Heinkel III e Junkers 52, per
un totale di novantatrè aerei; un corpo corazzato formato
da quattro battaglioni, suddivisi ognuno in tre compagnie di quindici
carri leggeri per un totale di centoottanta panzer; trenta compagnie
anticarro dotate di sei pezzi da 37 millimetri, per un totale di
centottanta bocche da fuoco. Andranno a rotazione in Spagna, compresi
gli istruttori civili, circa sedicimila uomini. Sia pure quantitativamente
minore rispetto all'Italia, la presenza militare tedesca sarà
di notevole rilevanza permettendo ai franchisti di assicurarsi il
controllo pressoché totale dell'aria, in quanto le forze
repubblicane non dispongono di un'aviazione efficiente in grado
di contrastare le unità straniere che combattono per l'avversario.
Passando per successive prove di forza, che tuttavia a differenza
del caso italiano non sfociano in aperti confronti militari, il
Terzo Reich riesce fra il 1938 ed il 1938 a raggiungere successi
cospicui, dall'annessione dell'Austria (12 marzo 1938), a quella
dei Sudeti (30 settembre successivo), all'occupazione della Boemia
e Moravia residuali (16 marzo 1939), che permette alla Germania
nazionalsocialista di costruirsi, conformemente a linee e progetti
già presenti nel mondo intellettuale conservatore di età
tardogugliemina, una colonia (il Reichsprotektorat Böhmen und
Mähren) interna al contenente europeo ma governata con modalità
non dissimili da quelle all'epoca messe in atto abitualmente dalle
potenze occidentali in Africa od Asia. Pochi mesi dopo, il 1°
settembre, l'aggressione alla Polonia avrebbe rappresentato da un
lato la svolta verso lo scatenamento di un conflitto generalizzato,
dall'altro tuttavia anche la prosecuzione di una linea politica
che, nelle sue linee ispiratrici, veniva da lontano. Come ha scritto
Fritz Fischer, nel discutere il rapporto tra continuità e
rottura nella politica espansionista tedesca:
Il ripresentarsi sulla scena
dei piani per la costruzione di un'area economica mitteleuropea
si pone sotto il segno della continuità, così come
l'ipotesi di una sua estensione allo spazio sudesteuropeo; è
ancora in corso la guerra con la Francia e gli Stati noti in seguito
come Benelux e già ci si prepara (come era stato previsto
avvenisse nel 1914) ad inserire l'Europa occidentale nel futuro
spazio economico tedesco tanto a breve come territorio da sfruttare
a vantaggio della conduzione della guerra da parte germanica, quanto
a medio termine come elemento chiave di una pianificazione economica
a dimensione continentale che si sarebbe estesa anche alla Scandinavia.
La Russia viene vista come mero oggetto di sfruttamento; in quest'ottica
i piani che la riguardano segnano senza dubbio una cesura rispetto
alla politica di potenza in passato usuale, in particolare per ciò
che concerne il trattamento inumano riservato alla popolazione e
l'obiettivo di ridurla allo stato di servi della gleba; ciò
non esclude, tuttavia, che si pensi di poter usare anche quell'area,
in particolare l'Ucraina ed i distretti petroliferi e minerari del
Caucaso, secondo linee tradizionali di sfruttamento economico, a
breve per trarne risorse utili all'economia di guerra, in un'ottica
meno contingente per potenziare l'egemonia produttiva della Germania
così da permettere a quest'ultima di contrapporsi alla potenza
economica statunitense (21).
Come per l'Italia, anche in
Germania è possibile ritrovare antefatti e fondamenti di
quella particolare miscela fra linee politiche imperialistiche di
medio periodo, modalità particolarmente brutali di loro realizzazione
e costruzioni ideologiche imperniate sul razzismo e su una concezione
radicalmente antiegualitaria degli esseri umani che ha contraddistinto
i fascismi storici così come si sono presentati nel periodo
fra le due guerre mondiali; nel caso tedesco particolare rilevanza
ha l'esperienza dei Freikorps, le formazioni militari irregolari
costituite in larga parte da militari smobilitati dopo il collasso
delle istituzioni prussiano-tedesche avvenuto il 9 novembre 1918
e la successiva proclamazione della Repubblica da parte della leadership
della socialdemocrazia maggioritaria. Come è noto, essi giocano
un ruolo di primo piano nella repressione delle istanze consiliari
più radicali, da Brema a Monaco alla Ruhr, e dei tentativi
di insurrezione armata assecondati dalle sinistre di ispirazione
comunista che punteggiarono il periodo che va dal gennaio 1919 a
marzo 1921, nell'eliminazione fisica di quadri e dirigenti delle
diverse correnti del movimento operaio, nonché - attraverso
una rete di organizzazioni clandestine di estrema destra, prima
fra tutte la ben nota Organizzazione Consul, che proprio nei Freikorps
trova alimento e supporto - di esponenti politici delle forze democratiche
(da Walther Rathenau a Mathias Erzberger a Hugo Haase), e sono in
prima fila nel promuovere ed appoggiare il tentativo di colpo di
stato promosso dalla destra nazionalmilitarista che passera alla
storia sotto il nome di putsch di Kapp (12 marzo 1920), ma una parte
tanto fondamentale quanto meno nota della loro esperienza esistenziale
e militare i loro membri la trascorrono combattendo al confine orientale
in quella che è una prosecuzione apparentemente oscura ma
altrettanto se non più sanguinosa della Grande guerra, e
che si incarna nel tentativo di opporsi con le armi alla perdita
di terre percepite come storicamente tedesche, in un contesto reso
caotico, in particolare sul Baltico, dal sovrapporsi di istanze
nazionaliste tedesche, russe, polacche, lituane e lettoni, di spinte
rivoluzionarie innescate dalla recente rivoluzione d'ottobre, di
manovre delle potenze dell'Intesa desiderose di stringere un cordone
sanitario politico e militare attorno al neocostituito potere bolscevico.
All'inizio di marzo 1919 le truppe a disposizione del comando tedesco
del Baltico ammontano a oltre 25.000 uomini. Solo nell'agosto successivo
il governo di Berlino è in grado di ordinare loro di rientrare
nei confini del Reich così come era stato appena ridisegnato
dal trattato di Versailles, ma parecchie unità volontarie
si rifiutano di obbedire; si sarebbero sottomesse solo dopo lunghe
trattative. Analoghe vicende si verificano in Alta Slesia ed in
Prussia occidentale, dove il collasso del Reich guglielmino lascia
il posto, dopo una fase in cui predominano spinte rivoluzionarie
radicali, allo scontro tra nazionalismo tedesco e nazionalismo polacco.
Viene in tal modo a costituirsi un tessuto di reduci ed ex combattenti
che rivendicano di non aver gettato le armi, dando vita ad "uno
spirito ed un mito, così forti nell'opinione pubblica conservatrice
e moderata, [che] sopravvi[vono] tuttavia a lungo,
rivivendo in parte nelle milizie nazionalsocialiste (22)",
e che hanno sviluppato nel corso dei caotici mesi successivi alla
conclusione formale della guerra fra Stati uno spiccato sentimento
antislavo unito ad un nazionalismo populista intriso di risentimenti
antiborghesi e di nostalgie di virile fratellanza militare. Non
solo, ma una quota significativa degli ex membri dei Freikorps entrano
a far parte, in particolare in seguito all'occupazione francobelga
della Ruhr nel 1923, delle unità paramilitari costituite
con il beneplacito del governo di Berlino e degli alti comandi delle
forze armate e denominate "Reichwehr nera", strumento
mediante il quale le gerarchie militari tedesche puntano ad aggirare
i limiti quantitativi posti dai trattati di pace. In sostanza, l'idea
di una guerra futura che rappresenti una definitiva resa dei conti
con i responsabili (veri o presunti che fossero) della sconfitta
del 1918 (della "pugnalata alla schiena", come era definita
dalla propaganda antirepubblicana) è diffusa tra settori
non trascurabili della popolazione; proprio questo è un elemento
che spiega l'adesione di gruppi non limitati alla prospettiva di
un conflitto militare che assuma caratteristiche di scontro ad un
tempo ideologico, razziale e di annientamento.
C) La seconda guerra mondiale
come passaggio inevitabile per la costruzione di un nuovo ordine
mondiale
A prescindere dalle forze messe
in campo nel corso della Seconda guerra mondiale e dalla strutturale
asimmetria economica e militare esistente fra Italia mussoliniana
e Germania hitleriana, fattore che ben presto confina il partner
mediterraneo dell'Asse nel ruolo scomodo del junior partner, è
indiscutibile caratteristica comune ai due regimi l'idea di una
gerarchia di popoli come base della propria egemonia:
all'apice del suo successo la
Grande Germania si presentava al culmine di una piramide, al cui
secondo gradino erano da collocare i paesi alleati o satelliti aderenti
al patto tripartito: in testa l'Italia, poi l'Ungheria, la Romania,
la Bulgaria, la Slovacchia, la Finlandia. Seguivano i territori
occupati dell'ovest e dell'Europa sudorientale, anche qui con significative
differenze. All'Ovest e al Nord dell'Europa: Norvegia, Danimarca,
Belgio (con la sottrazione di Eupen e Malmedy direttamente annesse
al Reich, che mirava anche ad appropriarsi di Vallonia e Fiandre);
il Lussemburgo annesso al Reich; la Francia nord-occidentale sotto
amministrazione tedesca e con la sottrazione dell'Alsazia e della
Lorena, direttamente annesse al Reich: questi paesi costituivano
un complesso di territori ritenuti in parte germanizzabili e in
parte sottoposti a governi fantoccio e comunque privati di ogni
autonomia operativa [
]. Nell'Europa sudorientale, al di fuori
dell'apparente condominio italo-tedesco in Grecia, dell'apparente
egemonia italiana in Croazia [
] e in Albania,la dominazione
tedesca era assicurata dalla penetrazione economica e dalla totale
disgregazione della Jugoslavia (23).
Ciò per quanto riguarda
Berlino; ma non molto diversa concettualmente (anche ovviamente
assai più velleitaria) la prospettiva vista da Roma:
La comunità imperiale
fascista ideale può essere configurata come un insieme di
tre cerchi concentrici organizzati etnicamente e secondo un principio
gerarchico e razzista, governati o controllati differentemente.
Il primo cerchio, o piccolo spazio, avrebbe compreso la penisola
italiana e le zone che "dovevano" essere annesse al Regno:
le isole Jonie, il litorale dalmata, la Slovenia, il Nizzardo, la
Corsica (eventualmente la Bosnia-Erzegovina e la Savoia). Nel piccolo
spazio si sarebbe trovato il nucleo direttivo - il centro della
civiltà del grande spazio - della comunità imperiale
costituita da diverse strutture politiche, sociali ed economiche,
determinate da una scala gerarchica basata sul grado di sviluppo,
sulle caratteristiche e sulle tradizioni d'ogni "razza".
Nel secondo cerchio avrebbero trovato posto i "membri europei"
della comunità imperiale. Tra essi sarebbero state incluse
entità statuali sorte dal "necessario" smembramento
o ridimensionamento di stati come la Jugoslavia e la Grecia: la
Croazia, il Montenegro, la Serbia e una Grande Albania che avrebbe
incorporato territori ellenici, come l'Epiro settentrionale, e jugoslavi,
come la Macedonia. Il grande spazio avrebbe compreso anche altri
stati con i quali roma avrebbe consolidato i legami politici ed
economici, sempre in funzione del grado di sviluppo e di civiltà
e della posizione della "razza": la Bulgaria, la Romania,
l'Ungheria, il Portogallo, la Spagna e la Francia (24).
Strumento imprescindibile della
costruzione dei "nuovi ordini" non può che essere
la guerra, una guerra che ha tra i suoi scopi non solo l'occupazione
di territori, ma la trasformazione violenta del tessuto demografico
ed umano preesistente (25). Una guerra strumento di igiene razziale
e dominio dei naturalmente superiori sui naturalmente inferiori.
Una guerra contiene in sé una logica di annientamento, ben
oltre la semplice aggressione armata.
1
Dino Grandi, Nota di diario del 6 novembre 1944, in Archivio Grandi,
busta 152, fascicolo 199, sottofascicolo 6, inserimento 2, foglio
59; citato in Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, volume
I, L'Italia in guerra 1940-1943, tomo I, Dalla guerra
"breve" alla guerra lunga, Torino, Einaudi, 1990,
p. 93.
2 Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera
1922-1939 (con contributi di Nicola Labanca e Teodoro Sala),
Milano, La Nuova Italia, 2000, p. 274.
3 Cf. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale
italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 204-208.
4 Riprendo la cifra totale da Giorgio Rochat, Gli uomini alle
armi 1940-1943. Dati generali sullo sforzo bellico italiano,
in Bruna Micheletti e Pier Paolo Poggio (a cura di), L'Italia
in guerra 1940-43, Brescia, Fondazione - Archivio "Luigi
Micheletti", 1991 (= Annale n° 5), p. 35. Faccio mie, naturalmente,
le osservazioni dell'autore circa il carattere fortemente approssimativo
del dato in questione.
5 Documenti diplomatici italiani, serie VIII, volume 4°,
n° 630, cit. in Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza,cit.,
pp. 289-290.
6 Nicola Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo,
Torino, UTET, 1995, pp. 604-605.
7 Sulla presenza italiana nel"paese delle aquile" prima
ed in particolare dopo il 7 aprile 1939 si veda ora la tesi di dottorato
di Giovanni Villari, L'influenza dell'ideologia fascista sulla
politica e le istituzioni albanesi, elaborata nell'ambito del
Dottorato di ricerca in storia del pensiero politico e delle istituzioni
politiche, XV ciclo (1999-2002), con sede amministrativa presso
il Dipartimento di Studi Politici dell'Università degli Studi
di Torino.
8 Teodoro Sala, Fra Marte e Mercurio. Gli interessi danubiano-balcanici
dell'Italia, in Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza,
cit., pp. 205-246, qui a p. 223.
9 Dino Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura
di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 312, cit. da Teodoro
Sala, cfr.nota precedente.
10 Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche
di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino,
Bollati Boringhieri, 2003; dal testo è ripresa la citazione
che segue, pp. 72-73.
11 Da Paolo Orano (a cura di), Le direttive del duce sui problemi
della vita nazionale. L'espansione coloniale, Roma, Pinciana,
1937, Benito Mussolini, Discorso della Sciesa di Milano,
4 ottobre 1922 (poco prima di essere nominato capo del governo),
p. 37.
12 Ivi, p. 151.
13 Nicola Labanca, Oltremare, cit., pp.137-138.
14 Ivi, pp. 174-175.
15 Noto agli italofoni con il nome di Hotel Balkan, il Narodni
dom è saccheggiato ed incendiato dalle squadre fasciste
il 13 luglio 1920; non è che l'inizio di una violenta serie
di azioni antislave che si prolungano nei giorni successivi.
16 Rolf Wörsdörfer, Cattolicesimo "slavo"
e "latino" nel conflitto di nazionalità, in
Marina Cattaruzza (a cura di), Identità contrapposte sull'Adriatico
nord-orientale 1850-1950, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003,
pp. 123-170, qui da p. 176. Dello stesso Wörsdörfer si
veda inoltre il recentissimo ed assai documentato studio Krisenherd
Adria 1915-1955. Konstruktion und Artikulation des Nationalen
im italienisch-jugoslawischen Grenzraum, Paderborn, Schöning,
2004
17 Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit., pp.
34-35.
18 Wilhelm Deist, Die Aufrüstung der Wehrmacht, in Idem
et alii, Ursachen und Voraussetzungen des Zweiten Weltkrieges,
Frankfurt am Main, Fischer, 1989, pp. 439-640; qui alle pp. 506-507.
19 Sul nesso tra politica di occupazione, controllo delle risorse
alimentari e annientamento di grandi masse umane cfr. Christian
Gerlach, Krieg, Ernährung, Völkermord. Forschungen
zur deutschen Vernichtungspolitik, Hamburg, Hamburger Edition,
1998.
20 Helmut Krausnick, Hans-Heinrich Wilhelm, Die Truppe des Weltanschuungskrieges.
Die Einsatzgruppen der Sicherheitspolizei und des SD 1838-1942,
Stuttgart, DVA, 1981; nonché Hans-Heinrich Wilhelm, Die Einsatzgruppe
A der Sicherheitspolizei und des SD 1941/42, Frankfurt am Main,
Lang, 1966.
21 Fritz Fischer, Zum Problem der Kontinuität in der deutschen
Geschichte von Bismarck zu Hitler, in Karl Dietrich Bracher,
Manfred Funke, Hans-Adolf Jacobsen (a cura di), Nationalsozialistische
Diktatur 1933-1945. Eine Bilanz, Düsseldorf, Droste, 1983,
pp. 781-782.
22 Gustavo Corni, Storia della Germania. Dall'unificazione alla
riunificazione 1871-1990, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 165.
23 Enzo Collotti, L'Europa nazista. Il progetto di un Nuovo ordine
europeo (1939-1945), Firenze, Giunti, 2002, pp. 66-67.
24 Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit., pp.
78-79.
25 Waclaw Dlugoborski (a cura di), Zweiter Weltkrieg und sozialer
Wandel. Achsenmächte und besetze Länder, Göttingen,
Vandenhoeck & Ruprecht, 1981; cfr. in particolare del curatore
Einleitung: Faschismus, Besatzung und sozialer Wandel. Fragestellung
und Typologie, alle pp. 11-64.
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