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[Le guerre d'aggressione del fascismo italiano
e del nazionalsocialismo tedesco
]

Brunello Mantelli (Università di Torino)

A) La guerra dei dieci anni di Benito Mussolini, 1935-1945, e le sue profonde radici

Nelle sintesi storiografiche e nei manuali scolastici si legge abitualmente che l'Italia monarchico-fascista entrò in guerra il 10 giugno 1940, e nella prospettiva di una guerra breve:

Mussolini non pensava di entrare in guerra a fianco dell'alleata Germania. Non pensò a preparare l'esercito. Credette ad una guerra breve e non alla vittoria tedesca, bensì ad una pace di compromesso, qualsiasi, nella quale avrebbe giocato il ruolo di Monaco (1).

Tuttavia, ad una più ampia considerazione, il regime guidato da Benito Mussolini era entrato in un tunnel di avventure militari, da cui non sarebbe più uscito fino alla sconfitta finale dell'aprile 1945 ben prima di allora, già nel 1935. Il 2 ottobre di quell'anno, infatti, parlando dallo stesso balcone romano di Palazzo Venezia da cui quasi cinque anni dopo avrebbe annunziato la decisione di "scendere in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente", il duce del fascismo dichiarò, con un chiaro riferimento alla sconfitta di Adua subita nel 1896 dall'Italia liberale: "Con l'Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!". Il giorno successivo le Regie forze armate iniziano l'invasione del territorio abissino muovendo dalla Somalia a sud-ovest e dall'Eritrea a nord. La campagna sarebbe durata formalmente fino al 9 maggio 1936, giorno in cui viene proclamato ufficialmente l'impero, tramite un decreto del Gran Consiglio del fascismo, ancorché, nella realtà,

consistenti nuclei di ribelli che non accettarono la dominazione italiana sopravvissero e passarono ripetutamente all'attacco nei mesi e negli anni successivi, ad onta delle misure repressive particolarmente feroci, come quelle scatenate dopo l'attentato contro il vicerè Graziani gravemente ferito ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937(2) .

Ancora nel 1938, infatti, sono stanziati nell'Africa Orientale Italiana (AOI, territorio coloniale nato dall'unione di Eritrea, Somalia ed Etiopia) circa 90.000 militari italiani (a cui si devono aggiungere circa 200.000 indigeni arruolati nei cosiddetti "ascari"); altri 60.000 sono piazzati, in quegli stessi mesi, in Libia, la colonia acquisita nel 1911 sotto il governo del liberale Giovanni Giolitti (3). Un po' più del 10% dell'organico totale (circa 1.300.000) degli uomini alle armi in tempo di pace, insomma (4).
Poche settimane dopo la conclusione delle operazioni regolari in Africa, il 27 luglio 1936 il neoministro degli Affari Esteri di Mussolini, Galeazzo Ciano, autorizza l'invio di una squadra di aerei da bombardamento (5) alle unità militari spagnole insorte, sotto la guida del generale Francisco Franco, contro il governo della Repubblica spagnola, retto da una coalizione di Fronte Popolare. E' solo l'inizio:

A conclusione dell'intervento [in Spagna], Mussolini avrà inviato 213 aerei da bombardamento, 132 tra idrovolanti, aerei d'assalto e aerei da ricognizione e 414 caccia, 3.436 carri armati veloci e migliaia di proiettili ai nazionalisti. Ma soprattutto ben 72.785 uomini, di cui 43.129 dell'esercito e 29.646 della milizia raccolti sotto l'autorità del CVT (Comando Truppe Volontarie), senza contare i 5.699 piloti e avieri e sei sottomarini (6).

Le unità italiane sarebbero rimaste in Spagna, partecipando attivamente alla guerra civile, fino alla definitiva vittoria franchista, nel marzo 1939 (il 28 cade Madrid, il 31 viene presa Alicante, ultima città rimasta in mano repubblicana). Appena una settimana dopo, il 7 aprile, reparti del Regio esercito sbarcano in quattro località lungo la costa albanese (7). In quarantotto ore il piccolo Stato balcanico, già dal 1927 una sorta di protettorato italiano dalla fragile indipendenza, è occupato militarmente. Il 16 successivo Vittorio Emanuele III di Savoia, già re d'Italia e dal 1936 proclamato imperatore grazie alla conquista dell'Etiopia, diventa anche re d'Albania. Ma che l'obiettivo reale fosse la costituzione sulla sponda orientale del mare Adriatico di una "testa di ponte" in grado di fungere da punto di partenza per successive avventure imperiali miranti alla destabilizzazione tanto della Jugoslavia quanto della Grecia è cosa che, come ha ricordato Teodoro Sala (8), era ben chiara agli occhi degli stessi gerarchi del regime: in un testo autobiografico Dino Grandi afferma infatti che : "Il controllo dell'Albania […] divenne un potenziale strumento offensivo per colpire al cuore la stessa Jugoslavia, o meglio la Serbia" (9).
Non per caso il 28 ottobre 1940, poco più di un anno dopo la nascita del "Regno d'Italia e d'Albania", sarà proprio dal piccolo paese balcanico che verrà avviata l'aggressione alla Grecia, destinata nei mesi successivi a destabilizzare tutti quanti i Balcani con l'intervento tedesco, ungherese e bulgaro a supporto delle forze italiane, ed i conseguenti collasso della Jugoslavia e occupazione dello Stato ellenico. Ma ormai l'Italia monarchico-fascista è attore a pieno titolo della Seconda guerra mondiale, dopo che, il 10 giugno 1940, ha abbandonato l'ambigua "non belligeranza" dichiarata nel settembre 1939 per unirsi anche sui campi di battaglia all'alleata Germania a cui è ormai legata da mille inestricabili fili, di natura tanto ideologica quanto materiale.
Che ci fosse un Leitmotiv in grado di unire assieme i singoli passi di questa escalation aggressiva è cosa evidente sol che si ripercorrano, come ha fatto recentemente un giovane studioso (10), le visioni mussoliniane in politica estera:

Secondo Mussolini, già nel 1922, se si fosse governata bene la nazione "indirizzandola verso i suoi destini gloriosi", "proiettando gli italiani come una forza unica verso i compiti mondiali", facendo del Mediterraneo un lago italiano si sarebbe inaugurato un periodo grandioso della storia italiana (11). Dodici anni dopo, il 19 marzo 1934, durante il discorso tenuto alla terza assemblea quinquennale del regime, Mussolini precisò le direzioni dell'espansione: "Parliamo tranquillamente di un piano che va sino al vicino millennio: il duemila […]. Gli obiettivi storici dell'Italia hanno due nomi: Asia e Africa, Sud e Oriente […] non si tratta di conquiste territoriali ma di espansione territoriale (12). Successivamente affermò che la rivoluzione avrebbe dovuto raggiungere il suo culmine con la conquista e l'espansione: "la marcia all'oceano Atlantico" attraverso l'Africa settentrionale francese e la "marcia all'oceano Indiano", attraverso il Sudan, che avrebbe "saldato" la Libia all'Etiopia. La conquista dello spazio vitale sarebbe stata attuata in tre momenti: corto, medio, e lungo termine.

Lungi dall'essere una convinzione personale del dittatore, la spinta imperiale dell'Italia monarchico-fascista veniva da lontano, nutrita da pulsioni che affondavano le loro radici nella tarda età liberale e che avevano trovato abbondante nutrimento nella mobilitazione di massa e nella conseguente, abbondante, produzione di miti politici che avevano caratterizzato la partecipazione del giovane Stato alla Grande guerra. Andando a ritroso nel tempo, possiamo individuare una serie di antefatti che spiegano la carica di violenza aggressiva, imbevuta - in particolare dalla metà degli anni Trenta - di razzismo antinero ed antislavo, di cui le Regie forze armate si sarebbero fatte portatrici (in particolare nei Balcani ma non solo) nel periodo 1940-1943. Il primo episodio da richiamare è la riconquista della Libia.

Alla fine della guerra mondiale gli italiani controllavano in Libia le principali città della costa […]. Mentre in Pirenaica fra 1916 e 1917 si era già giunti ad accordi con la Senussia, in Tripolitania la situazione sembrava più sotto controllo e si stavano studiando dei piani per una riconquista militare che avrebbe dovuto essere lanciata nella primavera del 1919 [… Ma anche lì] vennero intavolate trattative […]. Il risultato degli incontri fu un compromesso (13).

Di breve durata, tuttavia. Uno degli ultimi gabinetti liberali prefascisti, il governo presieduto da Ivanoe Bonomi, invia a Tripoli come governatore Giuseppe Volpi, uomo nuovo con alle spalle l'esperienza di organizzatore del Comitato di Mobilitazione Industriale nel periodo del conflitto mondiale e fautore di una politica di riconquista, avviata dal suo subalterno Rodolfo Graziani, allora giovane colonnello. Il 26 gennaio 1922, dieci mesi prima della marcia su Roma e dell'assunzione della carica di capo del governo da parte di Benito Mussolini, inizia l'offensiva con la riconquista di Misurata. La lotta sarebbe proseguita per anni, con fasi alterne, ancorché la sproporzione delle forze sul terreno giocasse pesantemente a favore degli italiani, fino al tragico epilogo del 1930-31, quando - allo scopo di stroncare dalle radici la resistenza in Cirenaica - Graziani, con il pieno appoggio del dittatore e dei suoi consiglieri, primo fra tutti l'ex quadrumviro Emilio De Bono, organizza la deportazione in massa della popolazione del Gebel (l'altopiano fertile che costituiva l'entroterra cirenaico) verso la costa, nelle aree desertiche della Sirte.

Il risultato fu drammatico […]. Sedentarizzate e confinate nei campi, le popolazioni seminomadi persero la libertà, vennero stravolte nella loro economia basata sugli spostamenti del bestiame, furono costrette a mutare repentinamente stile di vita e cultura e, poiché le condizioni nei campi erano durissime, molti persero la vita. E' difficile fare calcoli: ma tra morti e scampati alla deportazione - con una fuga in Egitto e ovunque fu loro possibile - la popolazione della Cirenaica si ridusse di più di un quarto. Se poco meno di duecentomila erano gli abitanti nel 1911, la metà dei quali venne sottoposta alla deportazione nei campi, e circa ventimila furono gli esiliati (di cui solo più di seimila rientrati), di circa quarantamila si persero le tracce in pochi anni di vita nei campi. Fu un genocidio (14).

Un secondo prodromo è rappresentato dalla questione dei confini orientali. Un atteggiamento aggressivo nei confronti dell'assetto politico strutturatosi sulla sponda orientale dell'Adriatico (e, parallelamente, verso i popoli in gran parte slavi che vi erano stanziati) è costitutivo della proposta politica fascista e dei miti politici da essa utilizzati, primo fra tutti quello della "vittoria mutilata", per colpa sia degli infidi alleati francobritannici, sia della debolezza del ceto politico liberale. Erede anche sotto questo aspetto delle correnti più estreme della destra liberalconservatrice e nazionalista, il fascismo unisce inestricabilmente velleità di conquista territoriale e pulsioni francamente razziste:

nella stessa Trieste a partire dall'estate del 1920 regnava quasi un clima da pogrom, rivolto contro le organizzazioni di sinistra e la minoranza slava. Con l'attentato incendiario alla casa slovena del popolo, il Narodni dom (15), i fascisti di Francesco Giunta si distinsero come il gruppo più radicale e più determinato fra i tanti gruppi nazionalistici e paramilitari che operavano a Trieste dalla fine della guerra (16).

L'attacco al Narodni dom è il primo assalto squadrista vero e proprio che si verifichi in Italia, precedente alle azioni antioperaie ed antisocialiste dei mesi che verranno, e non casualmente prende di mira una comunità vista ad un tempo come estranea alla nazione e come politicamente infida; nasce in questo modo lo stereotipo dello "slavocomunista", destinato ad influenzare profondamente l'agire politico del regime monarchico-fascista verso l'area balcanica (e non solo) ed a restare in vita ben oltre il 1945, lasciando rilevanti tracce nella pubblicistica di destra, fino ad oggi. Non casualmente, inoltre, saranno proprio esponenti del fascismo giuliano a ricoprire ruoli determinanti nelle istituzioni (dello Stato e del partito) deputate ad occuparsi della penisola più orientale del mar Mediterraneo. In sintesi,

nella seconda metà degli anni venti apparve sempre più chiaro che la meta cui Mussolini voleva condurre l'Italia era il rovesciamento dell'equilibrio delle potenze nel Mediterraneo […]. Mussolini si convinse con sempre maggior consapevolezza [… che] l'Italia doveva fare da sé e farsi strada con la forza delle armi. L'incontro con la Germania di Hitler non fu casuale, ma rappresentò […] la scelta dell'unico alleato disponibile a condividere l'obiettivo italiano di dare il colpo di grazia all'ordinamento dei vecchi trattati di pace (17).

B) Dalla violazione dei trattati alla Weltanschauungs - und Vernichtungskrieg: la Germania di Adolf Hitler 1936-1941

Il 7 marzo 1936 tre battaglioni delle forze armate tedesche, che esattamente un anno prima avevano mutato il proprio nome da Reichswehr in Wehrmacht, oltrepassano la linea ad Ovest della quale - secondo le norme fissate nel trattato di Versailles (1919) e ribadite in quello di Locarno (1925) - la Germania era tenuta a non schierare proprie truppe (zona smilitarizzata), e puntano su Aquisgrana, Treviri e Saarbrücken. Militarmente, i reparti in marcia erano poca cosa, ma alle loro spalle, lungo la riva destra del Reno, era ammassato il grosso delle truppe a disposizione del Reich nazionalsocialista, pronte a far fronte ad una possibile reazione armata francese. La guerra con Parigi era perciò stata messa in conto dai circoli dirigenti di Berlino, tanto dai politici quanto dai militari; mera leggenda, ancorché assai diffusa, che si trattasse di un bluff e che ai comandanti dei battaglioni incaricati di giungere al confine fosse stato ordinato di ritirarsi subito qualora avessero incontrato truppe dell'esagono. D'altro canto, la messa sotto controllo della fascia tra la riva sinistra del Reno ed il confine era necessaria, per motivi sia geografici, sia economici (industrie cruciali per la produzione di armamenti avevano sede proprio lì) se la leadership nazionalsocialista voleva dare corpo alla decisione di far ridiventare la Germania una potenza militare capace di rovesciare con le armi lo status quo (18).
Poco più di cinque anni dopo, il 22 giugno 1941, ben 153 divisioni della Wehrmacht, suddivise in tre gruppi d'armata (complessivamente quasi tre milioni di uomini) attaccano l'Unione Sovietica. Non è solo una guerra fra eserciti: sul fronte orientale si mescolano inestricabilmente dettami ideologici (la"crociata contro il bolscevismo"), istanze antisemitiche e razzistiche (la volontà di fare "piazza pulita" dell'ebraismo europeo, in larga parte concentrato nella parte centroorientale del continente, e di ridurre gli slavi al rango di iloti), obiettivi politico-economici (impadronendosi dei vasti spazi ucraini, bielorussi e della Russia occidentale le élites al potere nel Terzo Reich puntavano a risolvere una volta per tutte la strutturale carenza cerealicola della Germania (19) ed a garantirsi il controllo di materie prime cruciali come il petrolio del Caucaso). Ne scaturisce una guerra di annientamento che non fa alcuna distinzione fra militari e civili e che, anzi, vede agire unità specializzate nello sterminio della popolazione operanti alle spalle del fronte, le Einsatzgruppen (20). Si calcola che le quattro Einsatzgruppen (A, B, C, D) che agiscono sul fronte orientale muovendosi nelle retrovie eliminino complessivamente oltre un milione di esseri umani. Il loro organico non supera in tutto le tremila persone.
Come l'Italia fascista, anche la Germania nazista si trova in uno stato di mobilitazione bellica permanente dalla metà degli anni Trenta; alla rimilitarizzazione della Renania segue infatti l'intervento nella guerra civile spagnola; motivato da considerazioni sia di carattere economico (la presenza nella penisola iberica di materie prime basilari per la produzione bellica, primo fra tutti il manganese), sia di natura commerciale (la vendita di armamenti ai ribelli franchisti, in una fase in cui una delle principali fonti di valuta pregiata per il Terzo Reich è per l'appunto l'esportazione di armi), sia di tipo geostrategico (la presenza di un futuro regime fascistizzante in grado di indebolire la Francia, che avrebbe finito per trovarsi schiacciata tra le ganasce di una morsa), l'appoggio nazionalsocialista a Franco ed ai suoi si esplica attraverso l'invio di aerei e mezzi corazzati accompagnati da un numero relativamente ridotto di uomini: è costituita la "Legione Condor", formata da 6.500 uomini, rinnovati a rotazione affinché facciano esperienza sui fronti di guerra. La legione è composta da due gruppi di quattro squadriglie di caccia Messerschmitt 109; due gruppi gruppi di due squadriglie di Heinkel 51; un gruppo di tre squadriglie di Heinkel e Dornier 17 da ricognizione; quattro gruppi di tre squadriglie di bombardieri Heinkel III e Junkers 52, per un totale di novantatrè aerei; un corpo corazzato formato da quattro battaglioni, suddivisi ognuno in tre compagnie di quindici carri leggeri per un totale di centoottanta panzer; trenta compagnie anticarro dotate di sei pezzi da 37 millimetri, per un totale di centottanta bocche da fuoco. Andranno a rotazione in Spagna, compresi gli istruttori civili, circa sedicimila uomini. Sia pure quantitativamente minore rispetto all'Italia, la presenza militare tedesca sarà di notevole rilevanza permettendo ai franchisti di assicurarsi il controllo pressoché totale dell'aria, in quanto le forze repubblicane non dispongono di un'aviazione efficiente in grado di contrastare le unità straniere che combattono per l'avversario.
Passando per successive prove di forza, che tuttavia a differenza del caso italiano non sfociano in aperti confronti militari, il Terzo Reich riesce fra il 1938 ed il 1938 a raggiungere successi cospicui, dall'annessione dell'Austria (12 marzo 1938), a quella dei Sudeti (30 settembre successivo), all'occupazione della Boemia e Moravia residuali (16 marzo 1939), che permette alla Germania nazionalsocialista di costruirsi, conformemente a linee e progetti già presenti nel mondo intellettuale conservatore di età tardogugliemina, una colonia (il Reichsprotektorat Böhmen und Mähren) interna al contenente europeo ma governata con modalità non dissimili da quelle all'epoca messe in atto abitualmente dalle potenze occidentali in Africa od Asia. Pochi mesi dopo, il 1° settembre, l'aggressione alla Polonia avrebbe rappresentato da un lato la svolta verso lo scatenamento di un conflitto generalizzato, dall'altro tuttavia anche la prosecuzione di una linea politica che, nelle sue linee ispiratrici, veniva da lontano. Come ha scritto Fritz Fischer, nel discutere il rapporto tra continuità e rottura nella politica espansionista tedesca:

Il ripresentarsi sulla scena dei piani per la costruzione di un'area economica mitteleuropea si pone sotto il segno della continuità, così come l'ipotesi di una sua estensione allo spazio sudesteuropeo; è ancora in corso la guerra con la Francia e gli Stati noti in seguito come Benelux e già ci si prepara (come era stato previsto avvenisse nel 1914) ad inserire l'Europa occidentale nel futuro spazio economico tedesco tanto a breve come territorio da sfruttare a vantaggio della conduzione della guerra da parte germanica, quanto a medio termine come elemento chiave di una pianificazione economica a dimensione continentale che si sarebbe estesa anche alla Scandinavia. La Russia viene vista come mero oggetto di sfruttamento; in quest'ottica i piani che la riguardano segnano senza dubbio una cesura rispetto alla politica di potenza in passato usuale, in particolare per ciò che concerne il trattamento inumano riservato alla popolazione e l'obiettivo di ridurla allo stato di servi della gleba; ciò non esclude, tuttavia, che si pensi di poter usare anche quell'area, in particolare l'Ucraina ed i distretti petroliferi e minerari del Caucaso, secondo linee tradizionali di sfruttamento economico, a breve per trarne risorse utili all'economia di guerra, in un'ottica meno contingente per potenziare l'egemonia produttiva della Germania così da permettere a quest'ultima di contrapporsi alla potenza economica statunitense (21).

Come per l'Italia, anche in Germania è possibile ritrovare antefatti e fondamenti di quella particolare miscela fra linee politiche imperialistiche di medio periodo, modalità particolarmente brutali di loro realizzazione e costruzioni ideologiche imperniate sul razzismo e su una concezione radicalmente antiegualitaria degli esseri umani che ha contraddistinto i fascismi storici così come si sono presentati nel periodo fra le due guerre mondiali; nel caso tedesco particolare rilevanza ha l'esperienza dei Freikorps, le formazioni militari irregolari costituite in larga parte da militari smobilitati dopo il collasso delle istituzioni prussiano-tedesche avvenuto il 9 novembre 1918 e la successiva proclamazione della Repubblica da parte della leadership della socialdemocrazia maggioritaria. Come è noto, essi giocano un ruolo di primo piano nella repressione delle istanze consiliari più radicali, da Brema a Monaco alla Ruhr, e dei tentativi di insurrezione armata assecondati dalle sinistre di ispirazione comunista che punteggiarono il periodo che va dal gennaio 1919 a marzo 1921, nell'eliminazione fisica di quadri e dirigenti delle diverse correnti del movimento operaio, nonché - attraverso una rete di organizzazioni clandestine di estrema destra, prima fra tutte la ben nota Organizzazione Consul, che proprio nei Freikorps trova alimento e supporto - di esponenti politici delle forze democratiche (da Walther Rathenau a Mathias Erzberger a Hugo Haase), e sono in prima fila nel promuovere ed appoggiare il tentativo di colpo di stato promosso dalla destra nazionalmilitarista che passera alla storia sotto il nome di putsch di Kapp (12 marzo 1920), ma una parte tanto fondamentale quanto meno nota della loro esperienza esistenziale e militare i loro membri la trascorrono combattendo al confine orientale in quella che è una prosecuzione apparentemente oscura ma altrettanto se non più sanguinosa della Grande guerra, e che si incarna nel tentativo di opporsi con le armi alla perdita di terre percepite come storicamente tedesche, in un contesto reso caotico, in particolare sul Baltico, dal sovrapporsi di istanze nazionaliste tedesche, russe, polacche, lituane e lettoni, di spinte rivoluzionarie innescate dalla recente rivoluzione d'ottobre, di manovre delle potenze dell'Intesa desiderose di stringere un cordone sanitario politico e militare attorno al neocostituito potere bolscevico. All'inizio di marzo 1919 le truppe a disposizione del comando tedesco del Baltico ammontano a oltre 25.000 uomini. Solo nell'agosto successivo il governo di Berlino è in grado di ordinare loro di rientrare nei confini del Reich così come era stato appena ridisegnato dal trattato di Versailles, ma parecchie unità volontarie si rifiutano di obbedire; si sarebbero sottomesse solo dopo lunghe trattative. Analoghe vicende si verificano in Alta Slesia ed in Prussia occidentale, dove il collasso del Reich guglielmino lascia il posto, dopo una fase in cui predominano spinte rivoluzionarie radicali, allo scontro tra nazionalismo tedesco e nazionalismo polacco. Viene in tal modo a costituirsi un tessuto di reduci ed ex combattenti che rivendicano di non aver gettato le armi, dando vita ad "uno spirito ed un mito, così forti nell'opinione pubblica conservatrice e moderata, [che] sopravvi[vono] tuttavia a lungo, rivivendo in parte nelle milizie nazionalsocialiste (22)", e che hanno sviluppato nel corso dei caotici mesi successivi alla conclusione formale della guerra fra Stati uno spiccato sentimento antislavo unito ad un nazionalismo populista intriso di risentimenti antiborghesi e di nostalgie di virile fratellanza militare. Non solo, ma una quota significativa degli ex membri dei Freikorps entrano a far parte, in particolare in seguito all'occupazione francobelga della Ruhr nel 1923, delle unità paramilitari costituite con il beneplacito del governo di Berlino e degli alti comandi delle forze armate e denominate "Reichwehr nera", strumento mediante il quale le gerarchie militari tedesche puntano ad aggirare i limiti quantitativi posti dai trattati di pace. In sostanza, l'idea di una guerra futura che rappresenti una definitiva resa dei conti con i responsabili (veri o presunti che fossero) della sconfitta del 1918 (della "pugnalata alla schiena", come era definita dalla propaganda antirepubblicana) è diffusa tra settori non trascurabili della popolazione; proprio questo è un elemento che spiega l'adesione di gruppi non limitati alla prospettiva di un conflitto militare che assuma caratteristiche di scontro ad un tempo ideologico, razziale e di annientamento.

C) La seconda guerra mondiale come passaggio inevitabile per la costruzione di un nuovo ordine mondiale

A prescindere dalle forze messe in campo nel corso della Seconda guerra mondiale e dalla strutturale asimmetria economica e militare esistente fra Italia mussoliniana e Germania hitleriana, fattore che ben presto confina il partner mediterraneo dell'Asse nel ruolo scomodo del junior partner, è indiscutibile caratteristica comune ai due regimi l'idea di una gerarchia di popoli come base della propria egemonia:

all'apice del suo successo la Grande Germania si presentava al culmine di una piramide, al cui secondo gradino erano da collocare i paesi alleati o satelliti aderenti al patto tripartito: in testa l'Italia, poi l'Ungheria, la Romania, la Bulgaria, la Slovacchia, la Finlandia. Seguivano i territori occupati dell'ovest e dell'Europa sudorientale, anche qui con significative differenze. All'Ovest e al Nord dell'Europa: Norvegia, Danimarca, Belgio (con la sottrazione di Eupen e Malmedy direttamente annesse al Reich, che mirava anche ad appropriarsi di Vallonia e Fiandre); il Lussemburgo annesso al Reich; la Francia nord-occidentale sotto amministrazione tedesca e con la sottrazione dell'Alsazia e della Lorena, direttamente annesse al Reich: questi paesi costituivano un complesso di territori ritenuti in parte germanizzabili e in parte sottoposti a governi fantoccio e comunque privati di ogni autonomia operativa […]. Nell'Europa sudorientale, al di fuori dell'apparente condominio italo-tedesco in Grecia, dell'apparente egemonia italiana in Croazia […] e in Albania,la dominazione tedesca era assicurata dalla penetrazione economica e dalla totale disgregazione della Jugoslavia (23).

Ciò per quanto riguarda Berlino; ma non molto diversa concettualmente (anche ovviamente assai più velleitaria) la prospettiva vista da Roma:

La comunità imperiale fascista ideale può essere configurata come un insieme di tre cerchi concentrici organizzati etnicamente e secondo un principio gerarchico e razzista, governati o controllati differentemente. Il primo cerchio, o piccolo spazio, avrebbe compreso la penisola italiana e le zone che "dovevano" essere annesse al Regno: le isole Jonie, il litorale dalmata, la Slovenia, il Nizzardo, la Corsica (eventualmente la Bosnia-Erzegovina e la Savoia). Nel piccolo spazio si sarebbe trovato il nucleo direttivo - il centro della civiltà del grande spazio - della comunità imperiale costituita da diverse strutture politiche, sociali ed economiche, determinate da una scala gerarchica basata sul grado di sviluppo, sulle caratteristiche e sulle tradizioni d'ogni "razza". Nel secondo cerchio avrebbero trovato posto i "membri europei" della comunità imperiale. Tra essi sarebbero state incluse entità statuali sorte dal "necessario" smembramento o ridimensionamento di stati come la Jugoslavia e la Grecia: la Croazia, il Montenegro, la Serbia e una Grande Albania che avrebbe incorporato territori ellenici, come l'Epiro settentrionale, e jugoslavi, come la Macedonia. Il grande spazio avrebbe compreso anche altri stati con i quali roma avrebbe consolidato i legami politici ed economici, sempre in funzione del grado di sviluppo e di civiltà e della posizione della "razza": la Bulgaria, la Romania, l'Ungheria, il Portogallo, la Spagna e la Francia (24).

Strumento imprescindibile della costruzione dei "nuovi ordini" non può che essere la guerra, una guerra che ha tra i suoi scopi non solo l'occupazione di territori, ma la trasformazione violenta del tessuto demografico ed umano preesistente (25). Una guerra strumento di igiene razziale e dominio dei naturalmente superiori sui naturalmente inferiori. Una guerra contiene in sé una logica di annientamento, ben oltre la semplice aggressione armata.

1 Dino Grandi, Nota di diario del 6 novembre 1944, in Archivio Grandi, busta 152, fascicolo 199, sottofascicolo 6, inserimento 2, foglio 59; citato in Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, volume I, L'Italia in guerra 1940-1943, tomo I, Dalla guerra "breve" alla guerra lunga, Torino, Einaudi, 1990, p. 93.
2 Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939 (con contributi di Nicola Labanca e Teodoro Sala), Milano, La Nuova Italia, 2000, p. 274.
3 Cf. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 204-208.
4 Riprendo la cifra totale da Giorgio Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943. Dati generali sullo sforzo bellico italiano, in Bruna Micheletti e Pier Paolo Poggio (a cura di), L'Italia in guerra 1940-43, Brescia, Fondazione - Archivio "Luigi Micheletti", 1991 (= Annale n° 5), p. 35. Faccio mie, naturalmente, le osservazioni dell'autore circa il carattere fortemente approssimativo del dato in questione.
5 Documenti diplomatici italiani, serie VIII, volume 4°, n° 630, cit. in Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza,cit., pp. 289-290.
6 Nicola Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, UTET, 1995, pp. 604-605.
7 Sulla presenza italiana nel"paese delle aquile" prima ed in particolare dopo il 7 aprile 1939 si veda ora la tesi di dottorato di Giovanni Villari, L'influenza dell'ideologia fascista sulla politica e le istituzioni albanesi, elaborata nell'ambito del Dottorato di ricerca in storia del pensiero politico e delle istituzioni politiche, XV ciclo (1999-2002), con sede amministrativa presso il Dipartimento di Studi Politici dell'Università degli Studi di Torino.
8 Teodoro Sala, Fra Marte e Mercurio. Gli interessi danubiano-balcanici dell'Italia, in Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit., pp. 205-246, qui a p. 223.
9 Dino Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 312, cit. da Teodoro Sala, cfr.nota precedente.
10 Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; dal testo è ripresa la citazione che segue, pp. 72-73.
11 Da Paolo Orano (a cura di), Le direttive del duce sui problemi della vita nazionale. L'espansione coloniale, Roma, Pinciana, 1937, Benito Mussolini, Discorso della Sciesa di Milano, 4 ottobre 1922 (poco prima di essere nominato capo del governo), p. 37.
12 Ivi, p. 151.
13 Nicola Labanca, Oltremare, cit., pp.137-138.
14 Ivi, pp. 174-175.
15 Noto agli italofoni con il nome di Hotel Balkan, il Narodni dom è saccheggiato ed incendiato dalle squadre fasciste il 13 luglio 1920; non è che l'inizio di una violenta serie di azioni antislave che si prolungano nei giorni successivi.
16 Rolf Wörsdörfer, Cattolicesimo "slavo" e "latino" nel conflitto di nazionalità, in Marina Cattaruzza (a cura di), Identità contrapposte sull'Adriatico nord-orientale 1850-1950, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 123-170, qui da p. 176. Dello stesso Wörsdörfer si veda inoltre il recentissimo ed assai documentato studio Krisenherd Adria 1915-1955. Konstruktion und Artikulation des Nationalen im italienisch-jugoslawischen Grenzraum, Paderborn, Schöning, 2004
17 Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit., pp. 34-35.
18 Wilhelm Deist, Die Aufrüstung der Wehrmacht, in Idem et alii, Ursachen und Voraussetzungen des Zweiten Weltkrieges, Frankfurt am Main, Fischer, 1989, pp. 439-640; qui alle pp. 506-507.
19 Sul nesso tra politica di occupazione, controllo delle risorse alimentari e annientamento di grandi masse umane cfr. Christian Gerlach, Krieg, Ernährung, Völkermord. Forschungen zur deutschen Vernichtungspolitik, Hamburg, Hamburger Edition, 1998.
20 Helmut Krausnick, Hans-Heinrich Wilhelm, Die Truppe des Weltanschuungskrieges. Die Einsatzgruppen der Sicherheitspolizei und des SD 1838-1942, Stuttgart, DVA, 1981; nonché Hans-Heinrich Wilhelm, Die Einsatzgruppe A der Sicherheitspolizei und des SD 1941/42, Frankfurt am Main, Lang, 1966.
21 Fritz Fischer, Zum Problem der Kontinuität in der deutschen Geschichte von Bismarck zu Hitler, in Karl Dietrich Bracher, Manfred Funke, Hans-Adolf Jacobsen (a cura di), Nationalsozialistische Diktatur 1933-1945. Eine Bilanz, Düsseldorf, Droste, 1983, pp. 781-782.
22 Gustavo Corni, Storia della Germania. Dall'unificazione alla riunificazione 1871-1990, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 165.
23 Enzo Collotti, L'Europa nazista. Il progetto di un Nuovo ordine europeo (1939-1945), Firenze, Giunti, 2002, pp. 66-67.
24 Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit., pp. 78-79.
25 Waclaw Dlugoborski (a cura di), Zweiter Weltkrieg und sozialer Wandel. Achsenmächte und besetze Länder, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1981; cfr. in particolare del curatore Einleitung: Faschismus, Besatzung und sozialer Wandel. Fragestellung und Typologie, alle pp. 11-64.


 

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